IL MITO DEL MURATORE RESISTE Cambiano i tempi, la nostra terra è ricca di mille cose e personaggi, ma l’attaccamento al lavoro manuale rimane, e ne andiamo discretamente fieri
Ogni popolo, si sa, ha il suo mito fondante, qualcosa in cui riconoscersi. Se dovessimo cercarlo nella la nostra cultura, non potremmo che sceglierlo alla voce “lavoro”. D’altronde, è opinione comune: i Bergamaschi? Un po’ trugni, talvolta scontrosi, chiusi, ineleganti, attaccati al soldo. Ma non toccategli il lavoro, come ti tirano su loro una villetta bifamiliare in due settimane, non ce n’è! Basta percorrere la Bergamo-Milano la mattina presto per vedere colonne di furgonetti che trasmigrano verso la Brianza o l’hinterland, carichi di muratori, per raggiungere il solito cantiere e dotare il signor Besana o il ragionier Perego del suo ingresso indipendente, con mansarda e tavernetta. Il nostro mito fondante è questo: il magütt, al pari dei “asondei” e “stechetù”, vale a dire, per i meno avvertiti, ponteggi e tubolari. Perfino un falso bergamasco come Bertolino, dovendo rappresentare nel cabaret le caratteristiche tipiche della stirpe, si è messo una pagina de L’Eco di Bergamo in testa, a forma di barchetta, ha indossato una camiciona di flanella a scacchi e ha tentato di simulare le espressioni gutturaloidi dell’orobico al lavoro. Eppure, noi abbiamo tante altre cose: potremmo trovarci qualche altro mito originario, magari meno imbarazzante nei salotti buoni: viceversa, stiamo aggrappati alla leggenda del bergamasco lavoratore instancabile.
Cosa volete farci? Siamo gente così, abituata a sgobbare, fin dai tempi della fame. E oggi, che la fame non c’è più e, anzi, siamo una delle provincie più floride d’Italia, non abbiamo perso l’abitudine, quasi ci ricordassimo che le vacche grasse, come arrivano, possono pure andarsene. Abbiamo avuto condottieri e architetti, musicisti ed esploratori, ma era comunque gente che si faceva un bel mazzo e che ha rappresentato l’eccezione, professionalmente parlando, non la regola. A Bergamo si lavorava duro e, se il lavoro mancava, si andava via, per cercarne altrove: carbonai e spaccapietre, facchini per la Serenissima e minatori in Francia o in Belgio. Mai scherzato col lavoro, da queste parti. Perfino gli insegnanti bergamaschi hanno un sacro orrore per i permessi per malattia, le leggi 104 e, insomma, le infinite scappatoie che permetterebbero loro di prendersela un po’ più comoda. Il che la dice lunghissima sul vero “carater de la rassa bergamasca”: non brasca sota la sender, ma mani callose e schiena piegata dai sacchi di cemento. E a questi ignoti eroi che hanno contribuito a creare un’autentica leggenda, bisognerebbe dedicare un monumento, come quello del “Moléta” a Pinzolo: magari in pieno centro, proprio davanti a quelle sedi del potere politico e amministrativo che smentiscono ogni giorno le radici della bergamaschità, così, come monito. Un bel muratore di bronzo, con tanto di sacco sulle spalle, per avvertire lorsignori che chi non lavora non mangia, perlomeno nella nostra Mesopotamia. Perché il nostro sarà pure un mito fondante da poveracci, ma, perlomeno, è un mito da gente perbene, che non ha mai chiesto niente a nessuno. E ne andiamo discretamente fieri.