Attualità Cittadina

«La fatica? È una misura molto bergamasca»

di Maria Teresa Birolini
- 30 aprile 2025

LA FESTA DEI LAVORATORI Savino Pezzotta, segretario nazionale storico della Cisl, ricorda l’importanza del lavoro come strumento per ridare dignità all’uomo

“Il bergamasco ancora oggi conserva quella vocazione storica alla collettività, pensa e desidera partecipare a un disegno comune. Ma anche la scuola deve fare uno sforzo”

La fatica per i bergamaschi è sempre stata sinonimo di dignità: la prova che una persona si guadagna il pane con onestà e che per questo merita rispetto. Dice Savino Pezzotta, bergamasco di Scanzo e storico segretario nazionale della Cisl: “La dimensione del lavoro che io mi porto dentro non c’è più; mia mamma e mio papà mi dicevano che lavorare era un dovere e che bisognava dare sempre il meglio di sé; mi ripetevano per fare le cose bene dovevi fare fatica. Oggi la fatica non è scomparsa, diciamo che è meno fisica, ma di altra natura, spesso psicologica, ma resta”.

L’avvento delle macchine, delle tecnologie digitali, dell’ intelligenza artificiale e dell’automazione ha cambiato il mondo del lavoro?

“I nuovi strumenti digitali hanno una pervasività tremenda, non è solo perché sostituiscono con l’automatismo il lavoro manuale, hanno una pervasività perché ti cambiano la testa, cambiano l’approccio al lavoro. Il lavoro è diventato un elemento puramente strumentale, legato alla paga, al salario più che al fare bene, al creare con cura beni, oggetti, assistenza. Pertanto lo giudichi in base al salario, oltretutto i salari oggi non aumentano più, ma questa è un’altra questione”.

La figura del bergamasco sporco di calce che costruisce i muri , il magüt, è un’immagine che racchiude un’etica del lavoro che ha caratterizzato per decenni il nostro territorio. Cosa ne è di quel modello di lavoratore?

“Non c’è più, ma è giusto così. Se cambia la società si modifica anche l’organizzazione del lavoro e pure la mentalità di chi lavora. Il bergamasco di venti, trent’anni fa era subordinato, doveva sostenere più difficoltà di carattere fisico. Credo che il professionista bergamasco abbia acquisito più soggettività, e questo è un bene, ma forse ha anche perso quella dimensione etica che faceva del lavoro il suo modo di essere. Guardi, l’esperienza personale più significativa dal punto di vista esistenziale è stata quella della fabbrica, sono entrato a 16 anni alla Reggiani. Allora la fabbrica poteva essere un luogo infernale, c’era un autoritarismo sfrenato, una gerarchia aziendale tremenda, con capi e capetti. Non potevi alzare la voce e sbagliare niente. Ma al di là dello sfruttamento è stata un’esperienza umana incredibile, una comunità che conteneva tutte le dinamiche esistenziali, belle e brutte. La fabbrica era un luogo di relazione dove ci raccontavamo tutto l’uno dell’altro”.

C’è un legame tra la formazione cattolica e il senso molto bergamasco della fatica del lavoro?

“Nel Cristianesimo la fatica è apprezzata come un bene, non contiene un’accezione negativa. Si dice che per coltivare e avere frutti dalla terra devi fare fatica, un’idea declinata attentamente anche nelle encicliche sociali di questo secolo. Papa Francesco nella “Laudato si’” esprime un’idea di lavoro come dignità. Il lavoro è molto di più di una necessità per garantirsi la sopravvivenza. Solo il lavoro concorre a restituire la dignità alla persona che l’ha persa, riconsegnando con essa all’uomo il proprio rapporto con il reale, con i suoi simili. Il diritto alla occupazione è un diritto primario, a partire dal quale deve orientarsi tutta la discussione sul cambiamento in atto nel mercato del lavoro. E in questo il sindacato ha ancora un ruolo centrale: continua a esistere il conflitto fra lavoro e capitale, perché il lavoro cerca di ottenere qualcosa e il capitalismo cerca di avere tutto. Non è un caso che Trump si circondi di questi capitalisti che hanno la pretesa di dominare il mondo. Il lavoro ha la pretesa di corrispondere alla tua visione di umano, non insegue il potere. Non dimentichiamo che la forza del capitale ha sempre bisogno di un contrappeso”.

L’uomo della strada tende spesso ad avere un’idea del sindacato come una realtà marginale, quasi superflua o addirittura dannosa.

“Il sindacalismo italiano ha contribuito a civilizzare il capitalismo, ha fatto un favore anche ai padroni, li ha resi più coscienti del loro ruolo anche sociale. La democrazia è un processo e il fatto che ci fossero delle organizzazioni che temperavano l’elemento soltanto economico è stato fondamentale per la democrazia italiana. Negoziare e contrattare è ancora la vita del sindacato. Anche oggi difende l’ idea del rispetto e della libertà della persona nel lavoro. Decisi di fare il sindacalista quando in occasione del rinnovo del contratto dei tessili, si era riusciti a convincere gli operai della Reggiani a fare lo sciopero, e non era così scontato, Armando Reggiani per ripicca al nostro sciopero, perché lui era il padre di tutti secondo la sua visione, fece la serrata, chiuse la fabbrica. Avevo solo vent’anni, ma giudicai quel gesto come un’offesa, e mi iscrissi alla Cisl. Sindacalmente sono stato educato dalle donne, Maria Belotti ci fece scuola, era una bravissima sindacalista, veniva ai picchetti al mattino alle cinque, in pieno inverno, fuori dai cancelli”.

Bergamo ebbe un ruolo fondamentale nelle lotte operaie, che cosa rappresenta per lei?

“Bergamo è la mia terra - conclude Pezzotta -, non è una questione etnica ma culturale, quando sento parlare bergamasco sto bene, perché rappresenta la mia gente e il mio essere comunitario. Il bergamasco ancora oggi conserva quella vocazione storica alla collettività, pensa e desidera partecipare a un disegno comune. Ma anche la scuola deve fare uno sforzo, si spinge troppo sull’individualità e trasmette un concetto pericoloso: devi diventare bravo perché farai carriera. No, devi diventare bravo perché darai un buon contributo alla realtà sociale in cui vivi, alla tua famiglia, alla tua dimensione comunitaria".

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